
di Daniela Masia Urgu
Per un approccio alla riflessione sulla morte e il recupero dell’umanità
L’ultimo tabù: l’estinzione del concetto di morte e la demonizzazione del congedo simbolico.
Lo scorso settembre l’intero mondo si è fermato davanti alla morte delle Regina Elisabetta II di Inghilterra. Il mondo intero ne ha conosciuto la sua presenza per 70 anni di regno. Il mondo si è fermato ed ha partecipato ad un lungo commiato, ad un congedo che a molti è parso spettacolarizzato e spettacolarizzante, mentre nelle pratiche del protocollo esso è un evento che è rimasto identico a sé stesso fin dalla sua originaria istituzione.
La morte nella cultura antica è sempre stato un evento importantissimo nella vita delle persone, anzi nelle culture classiche l’evento morte era la cosa più importante della vita, nel senso che era ben chiaro a tutti che un evento come la vita, nella sua possibilità, non era paragonabile alla morte nella sua ineluttabile certezza.
Dunque durante la vita vi era una preparazione fondamentale proprio alla morte, al culto del congedo simbolico che tanto è importante non solo per i cari avvinti dal dolore della separazione, ma anche nell’economia della vita stessa.
Così la storia ci racconta il grande panorama che al culto dei morti è deputato, sia nella ricchezza che nella modestia questo evento non ha mai lasciato indolenti, con le eccezioni del caso. Il rispetto per la sacralità della vita è evidenziato dalla cura dell’accompagnamento al distacco. Non vi è cultura che questo non conosca o abbia conosciuto, sia nella sua versione religiosa che laica.
Infatti se la fede o le religioni si sono assunte l’incarico di trattare la morte, per i laici è la letteratura a trattare e consentire la trattazione del tema morte nella mediazione necessaria a che il congedo dai cari sia accettabile all’individuo.
Ma nel tempo contemporaneo che rapporto si ha con la morte? Quanto tempo è concesso al congedo simbolico? Quanto e come è visto il tempo del lutto?
Accade che, non volendo e ne più potendo concepire la morte come evento epocale e ineluttabile e quindi in tutta la sua tragicità, il tempo contemporaneo dissimula la morte e la rende spettacolare.
Insieme alla spettacolarizzazione anche la sua profonda natura viene sconfessata e blandita, così con essa non si può fare i conti a lungo, poiché il tempo incalza (così si vuole) e non consente di indugiare nel senso profondo della perdita della persona cara; giacché il tempo per il cordoglio e del congedo, prima del viaggio inedito che a tutti spetta, del lutto, questa è la parola tabuica, che accompagna la perdita che affettivamente, psicologicamente, emotivamente devasta l’animo di chi rimane, è diluito in una accezione medicalizzata della morte, che non rende se non un responso gelido e indifferente del corpo che ha smesso le sue funzioni vitali.
Dunque si è avuto questo passaggio dalla concezione della morte come evento tragico innestato alla vita, (affidato alla fede o alla letteratura per chi non riconosce la fede) alla scienza che non ha interesse alla dimensione tragica della morte, anzi ha lo scopo di stigmatizzare l’evento morte astraendolo da tutto ciò che esso comporta.
Il tempo contemporaneo dunque non ha più grandi strumenti per comprendere il senso tragico della morte, derubricata a mero evento naturale. Anzi per poterne non parlare in senso profondo ne ha costruito apparati di enfasi e spettacolo che hanno come funzione la rimozione del senso tragico della perdita e del congedo simbolico a beneficio di una narrazione e spettacolarizzazione del ricordo.
È auspicabile invece indugiare e accogliere la nostalgia come elemento curativo anche del dolore, questo non perché nel dolore si debba indugiare ma proprio perché dalla comprensione del dolore può rinascere un nuovo senso umano, un nuovo rapporto con il sacro che lega insieme la vita e la morte e le persone ai ricordi ma ricordi profondi e non edulcorati, ricordi e memorie sensibili e non mistificati.