
di Attilio Pinna
L’orizzonte oltre l’orizzonte.
Il fine vita nella civiltà della tecnica al tramonto dell’Occidente
Il rapporto tra diritto e scienza
Un discorso che pone alcuni problemi, nell’accostamento al tema del fine vita, è quello riguardante il rapporto tra diritto e scienza. Potremmo cioè chiederci se vi sia, alla luce del ruolo assunto oggi dal sapere tecnico – scientifico, a partire anche da una breve disamina del dettato costituzionale, una traccia dentro la quale scienza e diritto possano orientarsi.
Dal punto di vista del diritto costituzionale il tema del fine vita si traduce in una questione complessa, ossia se la vita sia un valore costituzionale obiettivo, di cui gli individui non dispongono, oppure se sia un diritto costituzionale soggettivo, di cui gli individui possono disporre.
Da una rapida rassegna delle disposizioni costituzionali possiamo ritenere che se si pensa alla vita propria, questa dev’essere letta alla luce del primato dell’autodeterminazione, mentre se consideriamo la vita altrui s’impone la via della sua inviolabilità.
È un orientamento interpretativo confermato nell’ordinanza n. 207 del 2018. Il riferimento costituzionale che, secondo la Corte, autorizzerebbe un individuo a porre fine alle proprie sofferenze sarebbe l’art. 32, per cui «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge», e siccome senza il consenso del paziente non si può eseguire il trattamento sanitario, appare indubbio che esista un diritto costituzionale di rifiutare le cure mediche. Così com’è indubbio che questo diritto a non subire trattamenti sanitari obbligatori contenga la libertà di morire.
Eutanasia attiva: i casi Cappato e Antoniani
Il caso Cappato ha posto un problema ancora diverso: ha sollevato la questione se il diritto a morire possa esercitarsi non già mediante l’interruzione del trattamento sanitario, ma attraverso l’assunzione di un farmaco letale.
La risposta della Corte Costituzionale è stata molto precisa: come si legge nel punto 9 del Considerato in diritto, «l’assistenza al suicidio può presentarsi al malato come unica via d’uscita (…), via d’uscita che però non consente trattamenti diretti non già ad eliminare le sofferenze, ma a determinarne la morte».
Fabiano Antoniani poteva rifiutare i trattamenti sanitari cui era sottoposto (cioè poteva decidere di sospendere l’alimentazione e idratazione artificiale e la respirazione meccanica) e la rinuncia alle terapie avrebbe portato il paziente alla morte. Così, la volontà dell’Antoniani di porre fine alla propria vita con l’eutanasia attiva consensuale, scrive Anna Alberti, è il frutto di una decisione alternativa rispetto alla rinuncia del trattamento sanitario; nel primo caso l’obiettivo suicidario si realizza dando seguito ad una richiesta di sospensione delle cure e consentendo il decorso della malattia che condurrà ‘naturalmente’ alla morte, nel secondo caso, la c.d. eutanasia attiva, il fine dell’attività medica sarà quello di procurare la morte, anticipando il decorso della malattia.
Successivamente è seguita la decisione 242 del 2019, in cui la Corte costituzionale ribadisce alcune condizioni in presenza delle quali l’aiuto al suicidio rientra nell’area del non penalmente rilevante: l’accertamento preliminare della sussistenza di alcuni presupposti – affidato al SSN; l’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative; la possibilità dell’obiezione di coscienza del personale medico e l’intervento del Comitato etico territorialmente competente.
Appare dunque come il legislatore costituzionale, seppur a certe condizioni, apra alla libertà di morire del malato sofferente che ritiene non più dignitosa la sua esistenza. Anche attraverso l’eutanasia attiva.
Come porsi dinanzi al tema del fine vita nella civiltà della tecnica
Come porsi allora di fronte al riconoscimento della libertà di morire, resa possibile attraverso un accompagnamento non doloroso, avverabile grazie alle nuove possibilità concesse dallo sviluppo dell’azione tecnico-scientifica? Come porsi, in sostanza, dinanzi al tema del fine vita nella civiltà della tecnica?
Secondo Heidegger una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno è il costituirsi della scienza come anticipazione matematica, nel senso che un complesso di movimenti della realtà e della natura può essere ordinato secondo uno specifico svolgimento e dunque essere controllato anticipatamente dall’uomo con il calcolo.
La scienza che progetta lo svolgimento della natura è in perfetta linea con la cultura dell’Occidente moderno, che pone al centro l’uomo, che progetta e dispone della natura che si rappresenta in modo tale che la natura sia disponibile ad ogni richiesta da parte dell’uomo, cosicché egli riesce a manipolare tutti gli enti di natura.
Anche Jaspers, approfondendo ancor più la sua riflessione sul divenire di tutti gli enti di natura, al pari dello stesso uomo, semplici materiali della tecnica, quando parla del tramonto dell’Occidente intende dire che viene meno quello sfondo umanistico che ha costituito il tratto specifico della cultura occidentale, perché la tecnica non ha alcun fine da raggiungere, né alcuno scopo da realizzare, non apre scenari di salvezza. La tecnica semplicemente funziona secondo quelle procedure che, pur nel loro rigore e nella loro efficacia, si rivelano incapaci di promuovere un orizzonte di significato.
La civiltà della tecnica oggi non si limita più a produrre beni di consumo e strumenti di lavoro, ma si è già incamminata verso la produzione dell’uomo, del suo corpo, dei suoi sentimenti e, infine, della sua felicità.
È recente la notizia riportata da alcuni organi di stampa che descrivono la fiera del Wish for a baby allestita nei padiglioni di via Mecenate a Milano. Con degli stand accoglienti vi era la promessa di garantire a chiunque lo desiderasse (e avesse abbastanza soldi per permetterselo) un figlio su misura, combinando insieme variabili geografiche, giuridiche e tecnologiche offerte dal mercato della fecondazione assistita. Tariffe, contratti, assicurazioni. E poi semi, ovociti, embrioni, impianti, dove dell’amore nulla importa.
In questo progetto le <cose> si presentano illimitatamente disponibili e non esiste un limite oltre il quale esse si rifiutino di lasciarsi maneggiare.
Ecco il punto sul quale credo il pensiero della scienza debba essere chiamato a soffermarsi, anche a proposito del fine vita.
Per tornare allo sfondo umanistico della civiltà occidentale, la filosofia nasce dal dolore della meraviglia, così diceva Aristotele, anzi dalla meraviglia del dolore, così scrive Galimberti. Lo stesso Nietzsche compie un’osservazione molto affascinante: “Ma egli [l’uomo] si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato”.
È questo passato che ammonisce l’uomo sulla sua finitezza. Da questa condizione non si può guarire. E molte figure di sofferenza sono inscritte in questa condizione.
Accettare il limite della morte, vuol dire rassegnarsi all’implosione di ogni senso, ma l’uomo è l’unico fra le specie dischiuso al senso. E forse potremmo sforzarci di chiederci comunque, di fronte al dolore supremo, se il malato sofferente non provi ancora quel desiderio di infinito, inscritto nella sua natura, quell’eudamonìa, che lo porta a desiderare, seppur quel desiderio rimanga nell’ombra, pur sempre la vita.
Questa caratteristica, l’apertura al senso, che contraddistingue l’uomo, la capacità di guardare verso un orizzonte oltre il confine dell’orizzonte, è il cuore di ogni sofferenza.
Ma si può curare la condizione umana? Chi autorizza l’uomo a separare la vita dal dolore? Quel dolore che, come scrive Galimberti “come un incendio, prima di distruggere definitivamente, scaraventa le sue scintille su tutti i progetti, su tutte le idee, su tutti i desideri, traducendoli in progetti mancati, in idee monche, in desideri incompiuti […]”.
Credo che se la scienza si soffermasse ad indagare la natura dell’uomo e la sua condizione mortale, lo spettacolo della vita riuscirebbe ad essere irradiato da una nuova luce, quella luce che rende possibile la conciliazione con il dolore.
