di Salvatore Mura La conquista dello Statuto: un’autonomia avanzata o un regionalismo moderato?
1.
La storiografia sarda può contare su un prezioso patrimonio di studi e di ricerche dedicate al periodo che va dall’immediato dopoguerra ai primi anni di attività della Regione autonoma della Sardegna. Il dibattito politico e istituzionale che sfociò nell’approvazione dello Statuto è stato ampiamente approfondito: anzitutto le ricerche di Mariarosa Cardia, che hanno un impianto di storia istituzionale, quelle sul Partito comunista di Piero Sanna e sulla Democrazia cristiana di Pasquale Bellu e Luca Lecis, orientate sulla storia politica, e poi quelle di Anna Alberti, Umberto Allegretti, Omar Chessa, Giuseppe Contini, Simone Pajno, Pietro Pinna (ma l’elenco dei giuristi è lungo) sul diritto costituzionale della Sardegna. Non mancano le raccolte di fonti edite, sia gli atti preparatori dello Statuto sia i volumi antologici che raccolgono gli articoli della stampa sarda dell’epoca. Il Centro studi autonomistici “Paolo Dettori” ha promosso una collana di ricerche sulla storia politica e istituzionale della Sardegna, con la pubblicazione di quattro monografie. Di recente è stato anche pubblicato un volume sulla storia del Consiglio regionale della Sardegna, a cura di Antonello Mattone e Salvatore Mura, che raccoglie i contributi di oltre venti studiosi tra storici e giuristi.
Il vuoto di conoscenza storica, insomma, è stato già riempito, anche bene. E tuttavia può essere ancora interessante interrogare le fonti, ponendosi nuove domande e formulando nuove ipotesi: alla storia dell’autonomia della Sardegna vista dall’interno dell’isola, che ha raggiunto un grado elevato di approfondimento, si potrebbe aggiungere la storia dell’autonomia della Sardegna vista dall’esterno, che è stata già oggetto di studio ma ancora merita di essere meglio esplorata, anche perché negli ultimi tempi il patrimonio archivistico sulla classe politica del secondo dopoguerra si è notevolmente accresciuto.
2.
Ettore Rotelli ha scritto che «l’attribuzione dell’autonomia regionale sia alla Sicilia (e, di conseguenza, alla Sardegna) sia alla Valle d’Aosta costituì non il frutto di una decisione unanime e definitiva dei partiti sull’opportunità dell’ordinamento regionale come tale, ma soltanto il corrispettivo necessario della conservazione di tali regioni all’unità nazionale, il tributo pagato per sottrarre consensi e togliere consistenza ad ambizioni ben più eversive». Al di là della tesi generale dell’autonomia sarda come «conseguenza» di quella siciliana, che è in larga parte convincente se si osserva l’intero percorso di conquista dello Statuto ma che forse finisce per sminuire troppo le specificità del caso sardo, vale la pena sottolineare la debolezza in Sardegna degli orientamenti separatisti, che non rappresentavano (come in Sicilia) un pericolo eversivo e un serio problema per l’unità nazionale.
All’indomani dell’armistizio il “virus” separatista aveva contagiato, in misura differente, i tre partiti di massa. La vicenda del Partito comunista sardo, però, si consumò tra la fine del 1943 e l’estate del 1944: un gruppo assai ristretto di comunisti sassaresi proponeva, peraltro in un modo piuttosto abbozzato e confuso, la costituzione di una repubblica socialista federata. La direzione centrale del Pci reagì duramente e in pochi mesi la campagna di espulsione delle idee separatiste infiltrate all’interno del partito ebbe successo. Nella nascente Democrazia cristiana un minoritario gruppo di giovani cattolici si pronunciò per la separazione della Sardegna dallo Stato italiano, ma l’episcopato e gli ex popolari riportarono l’ordine senza fatica e sradicarono rapidamente e definitivamente l’idea separatista. Per il Partito sardo d’azione l’autonomia era la ragione stessa della sua nascita nel 1921, ma all’indomani della caduta fascismo il vento era cambiato. Emilio Lussu, fedele alla sua linea federalista, era in minoranza: «i tre quarti del partito» erano «separatisti». Si trattava, comunque, di un partito in grave crisi, diviso al suo interno e indebolito dai contraccolpi della crisi del Partito d’azione, e perciò non aveva la forza per essere un pericolo eversivo. Per la classe politica centrale, in sostanza, l’indipendentismo sardo non destava le stesse preoccupazioni rispetto a quello siciliano, decisamente più combattivo: si tratta di una differenza importante, che non si può sottovalutare.
Già dal 1945 i due principali partiti optarono per un regionalismo moderato, che non affondava le radici nella storia isolana, nelle specificità culturali e linguistiche, né era giustificato con il richiamo ad una migliore amministrazione generale, ma aveva un marcato, se non esclusivo, fondamento economico-sociale. È in questo orientamento economicistico dell’autonomismo sardo (che poi, come vedremo in seguito, avrebbe trovato un riconoscimento importante all’interno del testo dello Statuto con l’articolo 13) che vanno ricercati i caratteri originali dell’esperienza sarda. Molto si deve al Partito comunista. Fu la segretaria nazionale e, in particolare Togliatti, che incoraggiò i dirigenti sardi del Pci, ancora molto cauti nei confronti dell’idea autonomista, ad avere l’ambizione di rappresentare le aspirazioni delle masse popolari, e quindi anche quella di una ponderata autonomia rispetto al centro dello Stato. Il confronto, che andò avanti per tutto il 1945, fra la direzione nazionale del Pci e il gruppo dirigente del partito in Sardegna, forgiò una concezione dell’autonomia legata strettamente alle rivendicazioni di trasformazione sociale ed economica, agli interessi di emancipazione delle classi popolari, al controllo dell’economia – dalla riforma agraria sino all’espropriazione dei grandi gruppi industriali. Gli aspetti istituzionali e quelli amministrativi relativi all’organizzazione del nuovo ente rimasero in secondo piano, se non completamente ignorati. Il Pci non si preoccupò di elaborare uno schema di Statuto.
La Dc sarda, impegnata a rimarcare la conversione in senso separatista del Partito sardo d’azione soprattutto col fine di intaccarne il consenso elettorale, in una prima fase recuperò le idee di Luigi Sturzo, in particolare quelle rese pubbliche con la relazione al Congresso di Venezia del 1921. D’altronde i dirigenti cattolici ripresero il pensiero sturziano perché quello era il più dettagliato, quello che poteva essere adattato meglio al dibattito politico sardo. I programmi democristiani (Il programma di Milano e le Idee ricostruttive), invece, erano troppo telegrafici e non erano sufficienti per reggere un confronto che andava ben oltre un sintetico manifesto. Gli organi nazionali del partito dei cattolici (a differenza di quelli del Pci) non si erano occupati del caso sardo, e in Sardegna mancavano gli autorevoli giuristi che elevavano il dibattito siciliano. Anche per questo la linea della Dc sarda non raggiunse un grado elevato di elaborazione e si presentò come contraddittoria: il leader indiscusso, Antonio Segni, rifiutava categoricamente l’ipotesi federalista, ma apprezzava il sistema americano e suggeriva la creazione di una seconda camera parlamentare con un numero uguale di rappresentanti per ciascuna regione. Si trattava di posizioni che possono essere considerate di tipo federalista, destinate, tuttavia, ad essere accantonate in una seconda fase, anche perché in contrasto con la linea della Dc nazionale. Il progetto di Statuto sardo, elaborato dall’avvocato Venturino Castaldi e poi diventato la proposta della Dc sarda, era una risposta moderata, che cercava di evitare un rapporto conflittuale con lo Stato e di bilanciare l’autonomia con l’esigenza di non rimanere esclusi dalle «riforme agrarie e industriali» nazionali. Così questa idea “elastica” dell’autonomia si collocava in una sorta di terza via, che voleva combinare le esigenze dell’autonomismo con l’efficacia della politica centralista.
La proposta più forte, istituzionalmente più definita, arrivava dal partito più debole, che non aveva alcuna speranza di influire sugli equilibri dell’Assemblea costituente. Il Partito sardo d’azione, anche se l’anima separatista era maggioritaria, presentò due schemi di Statuto di tipo federale. Il più dettagliato e ben costruito, quello di Gonario Pinna, autorevole avvocato e conoscitore del mondo tedesco (aveva frequentato l’Università a Berlino), riservava allo Stato la difesa, la politica estera, il sistema monetario, l’ordinamento della giustizia. Alla Regione venivano riconosciute le rimanenti competenze: anche la scuola, perché la formazione della cultura doveva contemplare le esigenze dell’isola. Il progetto Pinna era quello più solido, ma anche quello con meno possibilità di diventare legge costituzionale perché evidentemente aveva un sostegno politico assolutamente limitato.
La classe politica isolana, quindi, non riuscì a trovare un compromesso al suo interno. Mancò la cabina di regia che avrebbe dovuto cercare un’unica linea d’azione, trasversale agli schieramenti. La consulta sarda, l’organo che aveva il compito di scrivere il progetto di Statuto, dimostrò di essere lenta e inconcludente. Arrivò alla predisposizione di un progetto di Statuto in grave ritardo, quando ormai l’Assemblea costituente stava per iniziare il suo ultimo semestre di vita. Non funzionò la catena di collegamento con i rappresentanti sardi in Assemblea costituente. La mozione Lussu, che prevedeva l’estensione dell’autonomia concessa alla Sicilia anche alla Sardegna, fu presentata senza informare l’Alto commissario. Una misura così importante come poteva nascere senza il coinvolgimento delle istituzioni sarde e dei leader dei principali partiti isolani? Lussu intuiva – consapevole meglio e più di altri dei limiti della classe politica sarda – che la Sardegna non avrebbe ottenuto lo stesso grado di autonomia della Sicilia. Cercò di sfruttare il momento, ma si mosse male e fu accusato, sia da destra che da sinistra e anche dall’interno del suo stesso partito, di non rispettare la volontà dell’isola, di ledere l’autonomia sarda. E quindi la sua iniziativa fu bloccata.
3.
Perché la classe politica sarda non riuscì a conquistare l’autonomia che avrebbe voluto? Almeno in parte la risposta a questa domanda va ricercata nella mancanza di un’idea ampiamente condivisa dell’autonomia che la Sardegna avrebbe dovuto avere, ma fu estremamente condizionante l’affermazione nei due principali partiti di massa (Dc e Pci) della lealtà al rispettivo gruppo dirigente nazionale che aveva la priorità sulla lealtà all’esigenza autonomista. L’autonomia della Sardegna divenne ben presto importante anche per il Pci, e secondo alcuni interpreti più illuminati – come Renzo Laconi – persino sostanziale, ma doveva rispettare un presupposto fondamentale: non doveva minare l’unità del Pci né essere un ostacolo al suo sviluppo. Anzi, doveva favorirlo. Questo principio, che anteponeva le indicazioni della segreteria nazionale all’autonomia della Sardegna, creava una gerarchia di lealtà: la lealtà a Togliatti aveva la precedenza.
Nella Democrazia cristiana sarda la lealtà ai vertici del partito non era sentita allo stesso modo come nel Pci. Di fatto, però, anche per i democristiani gli interessi della classe politica centrale e quelli dello Stato ebbero la priorità. Nel 1944 Antonio Segni, quando ancora era soltanto un politico di livello regionale, aveva dato alle stampe una serie di articoli in cui tratteggiava un modello di ordinamento con un grado di autonomia molto forte: in una serie di materie l’ente regione si dovevano sostituire allo Stato. A proposito dell’agricoltura, ad esempio, aveva scritto che «la diversità delle condizioni agricole dell’Italia (diversità non solo da regione a regione, ma nella stessa regione) esige imprescindibilmente che tutti i problemi agricoli della regione siano in essa discussi e decisi». Diventato sottosegretario del ministero dell’Agricoltura nel dicembre dello stesso anno e poi ministro del medesimo dicastero nel luglio del 1946, acquisita dunque una dimensione nazionale, abbandonò quasi completamente le sue posizioni e l’autonomia sarda venne quasi percepita come “pericolosa”. In una riunione fra i deputati sardi, che si tenne nel marzo 1947, sostenne che l’agricoltura doveva essere demandata alla competenza concorrente (e non a quella esclusiva come aveva proposto nella stessa sede, fra gli altri, anche Emilio Lussu). Senza esporsi troppo, cercava di trovare un compromesso che ridimensionasse le ambizioni autonomiste della classe politica isolana perché ora il suo obiettivo era di controllare dall’alto la riforma agraria.
Né Segni e Mannironi, né Velio Spano e Renzo Laconi, cioè i massimi esponenti della classe politica sarda, si dimostrarono pronti a difendere l’autonomia dell’isola sino al punto di entrare in conflitto con De Gasperi e Togliatti. In Assemblea costituente lo schema di Statuto sardo elaborato dalla Consulta isolana arrivò – come dichiarò Lussu – «su una nave ritardataria ma senza strumenti di guerra a prua o a poppa o nascosti nella stiva». Contro l’opposizione del vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio Luigi Einaudi, che sosteneva con determinazione la necessità di salvaguardare l’equilibrio del bilancio statale e metteva in discussione l’autonomia finanziaria regionale, cioè l’essenza stessa dell’ente, la compagine sarda rivelò la sua scarsa forza contrattuale e la sua limitata volontà combattiva.
La classe politica nazionale, in particolare quella al governo, svolse in sostanza un ruolo frenante, conservativo, incontrando una resistenza complessivamente timida. E tuttavia all’esame dettagliato dell’Assemblea costituente sfuggì la rilevanza dell’articolo 14 dello Statuto (poi diventato 13 nella stesura definitiva) che impegnava lo Stato con il concorso della Regione a predisporre un piano organico per la rinascita economica e sociale dell’isola. Fu una conquista più importante di quella che allora poteva sembrare: la classe politica sarda aveva ottenuto una norma programmatica che nessun altro Statuto aveva e che impediva allo Stato di sfuggire facilmente dalle proprie responsabilità. Fu l’articolo 13, il più coraggioso e innovativo articolo di tutto lo Statuto sardo, che avrebbe dato sostanza all’autonomia, aprendo la stagione del cosiddetto Piano di Rinascita.