di Antonello Nasone


Gli anni del vento sardista

Nelle celebrazioni indette per festeggiare il traguardo del secolo di vita del Partito Sardo, purtroppo avvenute in forma ridotta causa pandemia, uno spazio non adeguatamente riempito è stato quello relativo agli anni del cosiddetto “vento sardista”. Se è ampiamente giustificato il maggior risalto concesso, negli eventi in programma, alle due massime figure di teorici del sardismo come Camillo Bellieni e Antonio Simon Mossa, la stagione del più consistente successo elettorale dal secondo dopoguerra ha trovato poche occasioni, se non nella rievocazione, spesso da citazione sommaria, nell’esser stata “l’era di Mario Melis”.

Mario Melis

Il rinchiudere gli anni del “vento” entro i tratti prorompenti e carismatici del leader olianese se ha il merito – al di là delle definizioni di comodo della stampa giornalistica – di identificare un arco temporale con la figura di spicco del decennio e restituire al Partito Sardo una visibilità epocale, allo stesso tempo l’abbagliante luce di Melis (e il mito che ne consegue) impedisce spesso di metter bene a fuoco un periodo che fu l’ultimo in cui intorno alle declinazioni della “specificità sarda”, alle sue categorie di pensiero, alle sue matrici storico-politiche, ancora era possibile assistere a un vasto confronto intellettuale che intendeva superare la pubblicazione autocentrata in quanto ambiva ad aprirsi ad ampi settori della società e, più o meno, a incidere nei meccanismi di prassi politica organizzata dai partiti.
Questa eccessiva concentrazione nella figura di Melis ha infatti sortito l’effetto di considerare quel successo elettorale del Partito Sardo come un fatto eccezionale – alla stregua di un alno sfrascato da un lampo, come scrisse Antonello Satta – e non come l’esito di una dinamica di ricomposizione cultural-politica che, se aveva nella critica alla “Rinascita” il suo lato più appariscente, si mostrava più come un ambizioso tentativo di rilettura della storia sarda, alla luce di un evidente allineamento della Sardegna ai parametri della modernità più avanzata.

 

Antonio Simon Mossa

Tradizionalmente l’interpretazione sardista fa risalire gli inizi di questo processo alla spietata disamina del “Piano di Rinascita” che Simon Mossa fece per tutta la metà degli anni ’60, quando si esibì in un controcanto rispetto all’ottimismo che ancora per poco rinsanguava i principali esponenti della “cultura della Rinascita”.

Se il compito di aggiornamento e di radicalizzazione del patrimonio sardista delle origini proposto da Simon Mossa – per sua stessa ammissione, del magistero di Camillo Bellieni – non diede linfa elettorale a un Partito Sardo che pencolò verso l’estinzione per quasi tutti gli anni ’70, non si può dire che esso fu così marginale come spesso si crede. Almeno a sfogliare le pagine de “La Nuova Sardegna” successive alla sua morte, quando per un ampio resoconto del suo lascito il quotidiano sassarese diede voce a figure dominanti della cultura isolana come Giovanni Lilliu, Umberto Cardia, Antonio Monni, Michelangelo Pira, solo per fare alcuni nomi.

Gli anni '80

La variegata appartenenza politica di costoro è l’emblema di come, pur ognuno nelle sue posizioni, buona parte del mondo intellettuale sardo di allora fosse scosso, a partire dalla fine degli anni ’60, da una spinta a razionalizzare quel “sentimento della perdita” che si faceva sempre più acuto con l’incalzare progressivo della “civiltà dei consumi” nell’isola. Il riemergere della “questione identitaria”, oltre il profetismo degli inascoltati, sorprese ampi strati della popolazione certamente per effetto del mancato approdo a quella “Terra Promessa”, di cui si erano decantati i contorni qualche decennio prima e che apparivano, allora, sufficientemente visibili e a portata di mano, ma che – complici le drammatiche vicende delle zone interne prima e, soprattutto, la crisi petrolifera di metà anni ’70 poi – nella sua immagine fragile rilasciava senza sosta le macerie fumanti di uno smarrimento ontologico. Una constatazione alla quale non si sottrasse agli inizi degli anni ‘80 la mente politicamente più lucida della DC sarda, Pietrino Soddu.

Mentre la sinistra sarda intravedeva un terreno inedito da sfruttare a pascolo, dove la crisi dell’autonomia poteva tranquillamente essere addebitata al suo attore principale (e, dunque, alla sua casa madre romana), la Democrazia Cristiana, e al contempo rilanciare un fruttuoso perimetro intellettuale costruito intorno a Lussu e Gramsci in cui entro la tradizionale “visione nazionale (italiana) del problema sardo” si innestava il raggio internazionalista della lotta degli oppressi, proprio quelle posizioni che la sinistra sarda bollava come portatrici di retaggi mitici furono capaci di fecondare quei fermenti che avrebbero meritato un adeguato inquadramento politico.

È interessante riportare la provenienza o la collocazione politica di queste ultime, un ventaglio che va dal cattolicesimo democratico di Lilliu al socialismo eretico dei vari Antonello Satta, Gianfranco Contu ed Eliseo Spiga. Ciò che ne scaturì fu proprio l’individuazione di una serie di percorsi capaci di accendere un nuovo immaginario nei sardi, se è vero che quest’ultimi, prendendo per buona la rilevazione sondaggistica della Makno prima delle elezioni regionali del 1984, si espressero positivamente per il bilinguismo e per una riprogettazione dei rapporti con lo Stato italiano in nome di più autonomia.

È sorprendente come anche questo dato abbia suggerito ben poco all’allora dirigenza del Partito Sardo, poiché, al di là dei sommovimenti congressuali e delle innovazioni statutarie, ciò che andava lentamente verificandosi era il progressivo spostamento di vari settori che fino a prima erano appaltati solitamente dalla Democrazia Cristiana e che venivano sedotti dalla freschezza di una compagine che, grazie ad essi, aveva compiuto un notevole balzo elettorale. In fondo era stato questo l’oggetto di tante recriminazioni e di tanti malumori della dirigenza sardista del secondo dopoguerra, il rimuginare dei vari Mastino, Sotgiu-Pesce contro la DC che aveva dilagato nell’elettorato di pertinenza sardista, persino lo stesso Lussu che ne rimproverava Titino Melis (“A te hanno preferito Segni”). Un esempio su tutti: il discorso del segretario Carlo Sanna al congresso del 1986 sembra, tra qualche distinguo, rimarcare quella che, tirate le somme, fu la cifra del quinquennio sardista, quella di una subalternità – bisogna aggiungere, a onor del vero, contrastata fortemente dalla base – di natura cultural-politica nei confronti del Partito Comunista.

Il dissipamento delle energie

Sarebbe oltremodo disonesto, oltreché risibile, affermare a posteriori che per il Partito Sardo sarebbe stato preferibile un’alleanza con una DC in crisi di consenso e dunque aggredibile nell’elettorato affine. Non è tanto una questione di destra, sinistra o di centro, quanto di non aver saputo capitalizzare un patrimonio decennale di idee, di non aver dato una cornice anche a certa esuberanza, ma di averla sottoposta al vaglio interessato della sinistra sarda per acquistare credito. Queste incredibili prudenze, quasi una ipnosi auto-indotta, non fecero altro che dissipare tutte le giovani energie che sembravano animare le migliori fasi di quella stagione: l’umanesimo sardista neo-comunitarista (Gianfranco Pintore) una nuova ermeneutica alternativa alle categorie degli interpreti sardi del neoidealismo italiano (Michele Pinna), la riscrittura di un nuovo statuto di autonomia nazionale che avrebbe dovuto precedere un periodo di rinegoziazione con lo Stato Italiano (Mario Carboni), la decostruzione giuridica della «ideologia dell’autonomia» (Lorenzo Palermo), sono tutte espressioni su cui una dirigenza con gli occhi rivolti all’avvenire avrebbe investito.

La sottovalutazione (o la rinuncia?) della battaglia culturale le fanno apparire, agli occhi di oggi, frammenti privi di una sintesi unitaria. Tutte queste posizioni di una certa validità non furono, infatti, mai oggetto di dibattito né in sede convegnistica e né all’interno degli organi di partito. Non solo: chiunque prenda in mano le edizioni dei convegni di studi promossi dal governo regionale dell’epoca noterà sia la scarsa partecipazione degli intellettuali di orientamento sardista, che la preferenza per le relazioni di esponenti della sinistra sarda, dove non è raro imbattersi in una polemica negazione circa l’esistenza di una «nazione sarda». A queste disorganicità, a queste voci senza eco, non si può celare lo scarso interesse del Partito Sardo per i mezzi mediatici e per la stampa di partito: «Il Solco» e «Forza Paris» uscirono quegli anni senza cadenza fissa.

La pluralità di voci che avevano iniziato a soffiare dalla fine degli anni’60 e che dopo un decennio avevano spinto il Partito Sardo verso importanti successi elettorali, rimasero tali. Mancando un contenitore (i centri di ricerca più sensibili a queste istanze, l’Istituto “Camillo Bellieni” di Sassari e la Fondazione Sardinia di Cagliari, nacquero al crepuscolo di quell’esperienza di governo) in grado di operare una sintesi cultural-politica come fondamento per l’agire, esse si dispersero agli inizi degli anni ’90, quando il calo dei consensi che colpì un Partito Sardo spoglio dei frutti che aveva lasciato rinsecchire, coincise con un nuovo ciclo politico italiano in cui la “specificità sarda” veniva ridotta a brandelli in nome di categorie e ordini per certi versi estranei persino alla tradizione politica italiana. E che avevano tutto l’interesse nel comprimerne la sostanza per favorirne la mutazione in quella fenomenalità mass-mediatica che la riduce a oggetto di consumo privo di carica politica.

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